martedì 28 novembre 2017

Macaluso sull'Autonomia siciliana



IL CORSIVO
Se la situazione è pessima non si può che essere pessimisti
Sono stato in Sicilia, nella mia città – Caltanissetta – dove il sindaco ha promosso un convegno di studi sullo Statuto speciale della Regione siciliana e sul ruolo che Giuseppe Alessi, un cattolico antifascista, sturziano, tra i fondatori della DC e primo presidente della stessa Regione, ebbe per la sua approvazione. Non faccio qui un resoconto del convegno al quale hanno contribuito valorosi studiosi, tra cui il professore Sabino Cassese. Nel nostro convegno inevitabilmente è stato richiamato il ruolo che in quella fase ebbero - non solo quello essenziale di Alessi - ma tante personalità che si impegnarono sul fronte dell’autonomia e del riscatto della Sicilia. Io, tra l’altro, ho ricordato ciò che fece Girolamo Li Causi, segretario del Pci siciliano, intellettuale e profondo conoscitore della storia della Sicilia il quale aveva scontato 15 anni di carcere e di confino e partecipato alla prima fase della Resistenza. In quell’occasione, Alessi si scontrò anche con De Gasperi mostrando che la politica non è ubbidienza ai capi ma scelta di idee e valori. Ma fare l’elenco delle personalità che, prima e dopo le elezioni regionali del 1947, si impegnarono nell’agone politico, dentro la Dc, il Pci, il Psi, ma anche nella destra, non è possibile ovviamente farlo in questa nota. Voglio dire che fu molto vasto. Ciò non significa che non ci furono scontri politici e sociali molto forti. Come è noto, nel marzo del 1947 Pci e Psi furono esclusi dal governo e si preannunciava il clima politico che si respirò prima e dopo le elezioni del 1948. Il 1 maggio del 1947 ci fu la strage di Portella e si verificò il primo grande scontro tra Li Causi e Mariano Scelba, ministro dell’Interno. Tuttavia, ecco il punto da sottolineare, Palmiro Togliatti alla Costituente operò con saggezza e determinazione per portare a compimento, in maniera unitaria, la Carta costituzionale. E lo stesso fecero gran parte dei costituenti della Dc, del Psi e i liberali. In Sicilia, Alessi presidente della Regione e Li Causi presidente del Comitato siciliano che trattava a Roma la “costituzionalizzazione” operarono per fare prevalere la comune volontà politica di dare forza e sostanza all’Autonomia siciliana. Se penso a quegli anni e alla miseria e squallore politico di oggi c’è veramente da temere per il futuro della Sicilia e dell’Italia. Basta volgere lo sguardo a cosa sono state le ultime elezioni siciliane e a parte rilevante degli eletti. Quando a Leonardo Sciascia rimproveravano di essere pessimista rispondeva: «Se la situazione è pessima non si può che essere pessimisti». Oggi più di ieri.


domenica 26 novembre 2017

PAPA FRANCESCO SUI MIGRANTI: vox clamantis in deserto

PAPA FRANCESCO SUI MIGRANTI: vox clamantis in deserto

QUELLO CHE PENSA BERGOGLIO SUI MIGRANTI E QUELLO CHE PENSANO MOLTI DEI CATTOLICI ITALIANI. TROPPI.

L’Italia è un Paese cattolico e di cattolici; per essere più precisi: a stragrande maggioranza cattolica.
Armi levate per sostenere l’identità cristiana dell’Europa e l’identità cattolica dell’Italia; e petti in fuori per difendere i simboli del cattolicesimo (vorrei dire nostri perché sono anche miei, ma non voglio creare confusione); chiedere a voce alta affinché questi simboli  stiano affissi alle pareti dei luoghi pubblici contro laici, agnostici e infedeli che li vogliono togliere perché empi e iconoclasti. Cattolici che più cattolici non si può, gl’Italiani.
E il papa, il romano pontefice, il successore di Pietro cos’è veramente per queste masse cattoliche? Perché la stragrande maggioranza di loro tiene in non cale le sue parole?

Bergoglio per i laici e per il mondo, ma  Papa Francesco, più propriamente per costoro, nel messaggio per la Giornata Mondiale della Pace che sarà celebrata il prossimo 1° gennaio e che è stato reso pubblico il 24 scorso, ha ricordato che il Signore “protegge lo straniero, egli sostiene l’orfano e la vedova’'; non se l’è inventata lui questa caratteristica dell’Eterno: egli ha letteralmente riportato il Salmo 146:9, ma ha opportunamente evitato di riferire anche la conclusione: “ma [l'Eterno] sovverte la via degli empi”.
Ha così denunciato che “In molti Paesi di destinazione si è largamente diffusa una retorica che enfatizza i rischi per la sicurezza nazionale o l’onere dell’accoglienza dei nuovi arrivati, disprezzando così la dignità umana che si deve riconoscere a tutti, in quanto figli e figlie di Dio”. Lo voglio ripetere: “si è largamente diffusa una retorica che enfatizza i rischi per la sicurezza nazionale o l’onere dell’accoglienza dei nuovi arrivati, disprezzando così la dignità umana che si deve riconoscere a tutti, in quanto figli e figlie di Dio”.
Ha dunque  aggiunto “Con spirito di misericordia abbracciamo tutti coloro che fuggono dalla guerra e dalla fame o che sono costretti a lasciare le loro terre a causa di discriminazioni, persecuzioni, povertà e degrado ambientale. Voglio ancora una volta ricordare gli oltre 250 milioni di migranti nel mondo, dei quali 22 milioni e mezzo sono rifugiati. Questi ultimi, come affermò il mio amato predecessore Benedetto XVI, ‘ sono uomini e donne, bambini, giovani e anziani che cercano un luogo dove vivere in pace’. Per trovarlo, molti di loro sono disposti a rischiare la vita in un viaggio che in gran parte dei casi è lungo e pericoloso, a subire fatiche e sofferenze, ad affrontare reticolati e muri innalzati per tenerli lontani dalla meta”

Mi chiedo: se tutto questo non è che sollecitazione ed esortazione, mero auspicio  per il mondo intero e  per chiunque, per chi crede e per chi non crede,ma non è, non dovrebbe essere, invece, per i cattolici e quelli che credono d’esserlo e lo proclamano,  imperativo categorico, morale, etico, da predicare e da praticare nel loro quotidiano?
Fatti loro, in realtà. A me, che importa? Niente: rilevo l’incongruenza e la contraddizione e mi dispiaccio di non avere dalla mia parte, in difesa del forestiero, dell’orfano e della vedova, quelli che pensavo avrebbero dovuto esserci, e prima e davanti a me.


Il papa sui migranti,Il Dubbio



MIGRANTI IL PAPA:“SONO UN’OCCASIONE E C’È CHI FOMENTA PAURA A FINI POLITICI”

MESSAGGIO PER LA GIORNATA MONDIALE DELLA PACE DEL PRIMO GENNAIO
Migranti, il Papa: «Si fomenta la paura a fini politici»

'Non respingere profughi e migranti verso luoghi dove li aspettano persecuzioni e violenze'. Lo chiede Papa Francesco che pur non nominando gli accordi tra l’Italia e la Libia sembra fare sue le ragioni di molte sigle cattoliche insorte contro tali politiche che sono comuni a diversi paesi europei. Nel Messaggio per la Giornata Mondiale della pace che sarà celebrata il prossimo primo gennaio, Francesco, infatti, suggerisce di ' bilanciare la preoccupazione per la sicurezza nazionale con la tutela dei diritti umani fondamentali'. Nel testo pubblicato ieri, Bergoglio ricorda ' il dovere di riconoscere e tutelare l’inviolabile dignità di coloro che fuggono da un pericolo reale in cerca di asilo e sicurezza, di impedire il loro sfruttamento'. ' Penso in particolare - scrive il Papa - alle donne e ai bambini che si trovano in situazioni in cui sono più esposti ai rischi e agli abusi che arrivano fino a renderli schiavi. Dio non discrimina: ‘ Il Signore protegge lo straniero, egli sostiene l’orfano e la vedova’'.
“Quanti fomentano la paura nei confronti dei migranti, magari a fini politici, anzichè costruire la pace, seminano violenza, discriminazione razziale e xenofobia, che sono fonte di grande preoccupazione per tutti coloro che hanno a cuore la tutela di ogni essere umano'. ' In molti Paesi di destinazione - denuncia il Papa si è largamente diffusa una retorica che enfatizza i rischi per la sicurezza nazionale o l’onere dell’accoglienza dei nuovi arrivati, disprezzando cosìla dignità umana che si deve riconoscere a tutti, in quanto figli e figlie di Dio'.
' Con spirito di misericordia - aggiunge il Pontefice - abbracciamo tutti coloro che fuggono dalla guerra e dalla fame o che sono costretti a lasciare le loro terre a causa di discriminazioni, persecuzioni, povertà e degrado ambientale. Voglio ancora una volta ricordare gli oltre 250 milioni di migranti nel mondo, dei quali 22 milioni e mezzo sono rifugiati. Questi ultimi, come affermò il mio amato predecessore Benedetto XVI, ‘ sono uomini e donne, bambini, giovani e anziani che cercano un luogo dove vivere in pace’. Per trovarlo, molti di loro sono disposti a rischiare la vita in un viaggio che in gran parte dei casi è lungo e pericoloso, a subire fatiche e sofferenze, ad affrontare reticolati e muri innalzati per tenerli lontani dalla meta'.
Papa Francesco chiede alla Comunità Internazionale di creare le condizioni affinchè ' i Paesi meno ricchi possano accogliere un numero maggiore di rifugiati'. È questa una delle proposte contenute nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace. Papa Francesco esplicita l’appoggio della Santa Sede al processo che lungo il 2018 condurrà alla definizione e all’approvazione da parte delle Nazioni Unite di due patti globali, uno per migrazioni sicure, ordinate e regolari, l’altro riguardo ai rifugiati. ' In quanto accordi condivisi a livello globale, questi patti - afferma il Papa - rappresenteranno un quadro di riferimento per proposte politiche e misure pratiche'. ' Per questo - spiega Francesco - è importante che siano ispirati da compassione, lungimiranza e coraggio, in modo da cogliere ogni occasione per far avanzare la costruzione della pace: solo così il necessario realismo della politica internazionale non diventerà una resa al cinismo e alla globalizzazione dell’indifferenza'.


lunedì 20 novembre 2017

la favola nera di Alva Campbell

Quando la realtà è peggiore della peggiore fantasia: la favola nera di Alva Campbell


Facciamo che debba eseguirsi la condanna a morte per iniezione letale  di un tale ritenuto responsabile di un omicidio commesso nel 97, quando aveva vent’anni. Facciamo che la si debba eseguire nell’Ohio.
Facciamo che, sempre per esigenze di scena e di narrazione, che questo signore, che chiamiamo Alva, stia male, ma proprio male: lo facciamo che camminare solo tramite un deambulatore, che ha gravi insufficienze respiratorie (dorme con un cuscino medico speciale e riceve ossigeno quattro volte al giorno), facciamo che ha recentemente subito una colostomia e che, per sovrappiù, forse ci ha pure un tumore ai polmoni.
Ora, siccome per ragioni di civiltà che tutti comprendiamo (tutti tranne qualcuno, fra i quali me), non si può eseguire una pena capitale su uno che non sta bene, facciamo che  i suoi avvocati abbiano chiesto ripetutamente una sospensione della pena, che però sarebbe  stata regolarmente respinta; immaginiamo che ad un certo punto venga eseguito  un esame medico sulle “vene palpabili” del condannato e che la portavoce dei Servizi penitenziari dello  stato dell’Ohio, abbia dichiarato  che “L’evoluzione dello stato di salute di mister Campbell –questo sarebbe il cognome del nostro personaggio- è seguito in modo professionale per prendere le misure necessarie alla sua esecuzione”. E facciamo che il giorno dell’esecuzione arriva: si fa distendere Alva su un lettino e lo si lega per bene. Come un arrosto di vitello, come un salame; e non oso immaginare cosa il salame stia pensando, in quel momento; ma: sciocco che sono! i salami non pensano; I salumieri pensano, sì, loro sì che pensano. È vero: il cacciatorino Negroni, per dire, non pensa, ma il signor Negroni, sì –o almeno: tutto lascia pensare che i Negroni e i Galbani e pure il salumiere  che è  dietro l’angolo  pensino, che abbiano sentimenti, che godano e che soffrano. Come tutti gli esperti di norcineria, e non solo loro, per fortuna.
Che pensi o non pensi, Alva sta lì, sul suo lettino, quel lettino che egli pensa sia l’ultimo –questo anche se non l’ha pensato espressamente, deve pur averlo ragionevolmente ritenuto-, legato come un salame che non pensa –ma pensa, il poveretto- mentre  il boia, per 3 ore, tre ore che sono centoottanta interminabili minuti per il salame, gli gira intorno; lo tasta, lo palpa, lo saggia alla ricerca di una vena “utile” nel suo corpo:  nelle sue braccia, nelle sue gambe, nelle giunture delle braccia e dietro i ginocchi,  una vena che sia “utile” per iniettare  il veleno che farà definitivamente pagare ad Alva il debito che ha con lo stato dell’Ohio. In vena di macabro e di grottesco –ma “vena” qui non dovevo dirlo-, la vena, una che sia una, una sola, non si trova.
Alva viene slegato, messo sulla carrozzina e riportato in cella e    poco dopo JoEllen Smith, che fa il suo dovere di portavoce comunica al mondo che  “L’esecuzione si è conclusa con un fallimento, una nuova data verrà presto fissata”.
Meno male che era una storia, che se fosse stata vera sarebbe stata terribile; solo un maniaco dell’orrore avrebbe potuto concepire una storia così.

E invece la storia è proprio vera.


Fonte: Daniele Zaccaria, Il dubbio, 17 novembre 2017

Alva Campbell: una esecuzione mancata

OHIO IL BOIA NON HA TROVATO LA VENA
Due ore di tortura in sala della morte: esecuzione rinviata
La tortura è durata due ore, 180 minuti di pura crudeltà in cui la macchina della morte alla fine si è inceppata: il boia non è riuscito a trovare una vena “utile” nelle braccia ( e nelle gambe) di Alva Campbell, 69 anni, condannato all’iniezione letale per un omicidio di un 18enne commesso nel 1997.
I testimoni raccontano di una scena grottesca che sembra uscita da una pellicola di David Lynch con quattro agenti di polizia che hanno cercato invano di applicare un catetere venoso negli arti del prigioniero immobilizzato sul lettino, con un ultimo infruttuoso tentativo di far entrare il veleno attraverso la parte posteriore del ginocchio destro. Mentre le guardie si accanivano pertrovare il “varco”, Campbell cercava disperatamente di stringere le mani dei suoi aguzzini. Quando lo spettacolo è diventato insostenibile gli agenti hanno mandato via senza spiegazioni i giornalisti che, per la legge americana, possono assistere al supplizio assieme ai familiari delle vittime. «L’esecuzione si è conclusa con un fallimento, una nuova data verrà presto fissata», si legge in un laconico comunicato della portavoce dei servizi penitenziari di stato JoEllen Smith. Lo hanno riportato in cella su una sedia a rotelle, in attesa che la giostra mortale riprenda a girare.
Lo stato di salute di Campbell è però pessimo: può camminare solo tramite un deambulatore, ha gravi insufficienze respiratorie ( dorme con un cuscino medico speciale e riceve ossigeno quattro volte al giorno), ha recentemente subito una colostomia ed è probabilmente consumato da un tumore ai polmoni. I suoi avvocati hanno chiesto più volte la sospensione della pena ma le autorità dell’Ohio non hanno mai ritenuto le sue condizioni incompatibili con l’iniezione letale: «L’evoluzione dello stato di salute di mister Campbell è seguito in modo professionale per prendere le misure necessarie alla sua esecuzione», aveva detto appena tre giorni fa la stessa JoEllen Smith. Parole raggelanti, pronunciate dopo un’esame medico sulle «vene palpabili» del condannato che avrebbe avuto esiti positivi.
Durissimo il commento dell’Unione americane per le libertà civili ( Aclu): «Oggi la vita di un uomo è stata oggetto di uno spettacolo macabro: è la seconda volta in pochi anni che questo acacde in Ohio, questo è disumano», tuona Micke Brickner, dirigente dell’organizzazione che ha chiesto l’ennesima moratoria sulla «pratica selvaggia» delle iniezioni letali rivolgendosi direttamente al governatore dello Stato John Kasich. Sul caso Campbell è intervenuta via Twitter anche Helen Prejan, religiosa cattolica e icona della battaglia contro la pena di morte negli Stati Uniti: «Kasich e i tribunali dell’Ohio avrebbero fatto meglio ad ascoltare gli avvocati di Alva».
In ogni caso ci vorrà del tempo per riprogammare l’esecuzione, tra ricorsi legali e i normali tempi della burocrazia federale, Campbell dovrebbe tornare davanti al boia non prima della primavera del 2019, sempre che per quella data non sia già stato ucciso dalla malattia. Per il momento è rientrato nel braccio della morte come uno che torna dall’aldilà senza sapere bene il perche: «È un giorno che non dimenticherò mai nella vita», sono state le uniche parole riferite al suo avvocato.

Il primo caso moderno di un tentativo di esecuzione fallito è accaduto in Louisiana nel 1946, quando una sedia elettrica malfunzionante non è riuscita a togliere la vita a Willie Francis un afroamericano condannato per un omicidio commesso quando aveva 15 anni. In quel caso la Corte Suprema degli Stati Uniti permise allo Stato di replicare l’esecuzione che avvenne nel giugno 1947.

giovedì 16 novembre 2017

L’Onu striglia l’Italia su Libia, 41 bis e tortura

L’Onu striglia l’Italia su Libia, 41 bis e tortura
DURISSIMA PRESA DI POSIZIONE DELL’ALTO COMMISSARIO PER I DIRITTI UMANI
La politica dell’Unione europea di assistere la guardia costiera libica per intercettare nel Mediterraneo e riportare indietro i migranti «è disumana». L’accusa arriva, con un comunicato diffuso a Ginevra al termine della sessantaduesima sessione del Comitato Onu contro la tortura, dall’Alto commissario delle Nazioni unite per i diritti umani, Zeid Ra’ad Al Hussein. Si esprime sgomento per l’aumento del numero di migranti trattenuti in condizioni orribili nei centri di detenzione in Libia. Ma le critiche del Comitato Onu non si fermano solo a questo. L’Italia viene messa sotto accusa anche per la recente legge sul reato di tortura e si sollevano dubbi sull’applicazione del regime duro del 41 bis.

MATHIEU WILLCOCKS/ WORLD PRESS PHOTO


LA DENUNCIA DEL COMITATO DELL’ONU CONTRO LA TORTURA ( CAT)
Migranti, Ue e Italia «Li hanno consegnati agli aguzzini libici»
Deportazioni collettive verso Paesi che praticano la tortura e violano i diritti umani, l’uso eccessivo della forza e gli abusi di polizia contro i migranti, così come le espulsioni che non vengono precedute da verifiche attente sul rischio di tortura nei paesi di provenienza o gli esseri umani venduti all’asta. Queste sono le critiche durissime nei confronti dell’Europa, in particolare all’Italia, formulate dal comitato delle Nazioni Unite contro la tortura ( CAT), durante la sessan- taduesima sessione del Comitato stesso organizzato a Ginevra. Il comitato dell’Onu mette sull’indice anche il memorandum italiano - non avvallato dal parlamento - con il Sudan e le conseguenti espulsioni collettive di 48 sudanesi del Darfur. Vale la pena ricordare di cosa si tratta. Il 18 agosto 2016, un cittadino sudanese proveniente dal Darfur e situato in un centro della Croce Rossa di Ventimiglia viene arrestato e sottoposto ad una procedura di identificazione forzata da parte della polizia italiana.
Durante lo svolgimento di tale procedura, egli non è informato della possibilità di poter richiedere protezione internazionale, pur avendo affermato con forza il suo desiderio di non essere rispedito in Sudan, da dove era fuggito a causa di persecuzioni e gravi violazioni dei diritti umani. Successivamente, il 24 agosto 2016 l’uomo viene trasportato a Torino insieme ad altre decine di cittadini sudanesi. A partire da tale città essi sono stati forzatamente rimpatriati in Sudan. Come è stato successivamente spiegato dalle autorità italiane, i rimpatri erano stati condotti sulla base del Memorandum d’Intesa tra Italia e Sudan, firmato da Franco Gabrielli ( il capo della polizia italiana e direttore generale del dipartimento di pubblica sicurezza) e Hashim Osman el Hussein ( il direttore generale della polizia sudanese) a Roma il 3 agosto 2016.
Ed è qui che il comunicato dell’Onu punta l’indice: in Italiaqualsiasi misura legislativa volta a regolare la disciplina della gestione dei flussi migratori e del rimpatrio dei cittadini sudanesi deve seguire la procedura prevista dagli articoli 80 e 87 della Costituzione, inerenti la ratifica di trattati internazionali. La decisione relativa alla ratifica e attuazione del memorandum avrebbe dovuto essere stata sottoposta a un controllo parlamentare, invece è stato bypassato.
In realtà, la vicenda incriminata delle espulsioni non ha rappresentato un caso isolato, ma ha riguardato la tendenza dell’Europa – stigmatizzata dal Comitato dell’Onu - circa il regolamento dei flussi migratori: l’affermazione di accordi bilaterali verso alcuni Paesi dove avvengono sistematiche torture per facilitare i rimpatri dei cittadini extracomunitari senza formalità. Durissima critica arriva poi sugli accordi con la Libia.
«Il patto con Tripoli è disumano e la sofferenza dei migranti detenuti nei campi in Libia è un oltraggio alla coscienza dell’umanità, ovvero si tollerano le torture pur di gestire il fenomeno migratorio ed evitare gli sbarchi», tuona l’alto commissario Onu per i diritti umani Zeid Raad Al Hussein durante la riunione del comitato delle Nazioni Unite.
Il Comitato, infatti, definisce esplicitamente le milizie libiche come gruppi irregolari finanziati per detenere migranti, i quali subiscono violenze e torture, e afferma che gli accordi in questione hanno istituzionalizzato una politica di sequestri e riscatti.
Un passaggio specifico è stato dedicato anche all’abolizione dell’appello nelle richieste di asilo politico, provvedimento contenuto nel decreto Minniti-Orlando sull’immigrazione, che indebolisce la protezione giudiziaria dei rifugiati.

mercoledì 15 novembre 2017

Giovanna Chiarello - La vita è un caleidoscopio


LA VITA È UN CALEIDOSCOPIO

Un fatto del 2013, un ricordo di quarant'anni prima, una riflessione - inutili, manco a dirlo

La vita è un caleidoscopio.
Qualcuno deve averlo detto prima e più autorevolmente di me, ne sono sicuro, ma non riesco a ricordare chi sia stato. E forse l’ha detto con senso diverso dal mio. Non lo so.

                             

Mi sono svegliato, stamattina, con questo rovello del caleidoscopio della vita; o meglio del vivere, della realtà, del farsi e del disfarsi nell’attimo stesso in cui si fa; del combinarsi di un’infinita varietà di pezzettini che si compongono, si scompongono, si ricompongono in maniera nuova e diversa, inaspettatamente, con lo stupore di chi guarda dentro all’apparecchio e con l’indifferenza di chi ha l’occhio altrove e fuori dall’oculare; con l’indifferenza del pezzettino stesso che non ha coscienza di se, della sua forma, del suo colore e non sa quello che sta facendo; che, senza che ce ne sia una ragione o senza che questa ragione, se c’è, si conosca, si sta allontanando da altri pezzettini per avvicinarsi ad altri; che ha scomposto un’immagine nei suoi componenti essenziali per non essere più immagine, quell’immagine, ma a formarne un’altra, nuova e diversa, che finirà di lì a poco. Effimera, come effimere sono tutte le cose della vita e come effimera è la vita stessa.
 
E chi lo sa.
Le immagini del caleidoscopio si compongono, si scompongono, si ricompongono, si formano, nascono, muoiono per poi rinascere in un numero finito, che, appunto, per quanto grande è tuttavia finito.
Sono certo che un matematico, e neanche tanto esperto, se sa quanti sono i pezzettini colorati e sa di quanti e quali colori essi sono potrà calcolare il numero d’immagini possibili. E per di più, chi manovra il comando del caleidoscopio potrà fermare un’immagine a suo piacimento e per il tempo che vorrà, e pure per sempre. 
E così è la vita? Così è la realtà. No. Non è così, ci somiglia, la vita, al caleidoscopio, ma non è un caleidoscopio.
Forse non c’è il manovratore; io credo che ci sia, e se c’è, non muove la ghiera a caso perché a caso si combinino i colori e si creino le forme, ma sa bene come combinare i pezzettini che poi siamo noi, le cose entro le quali ci muoviamo, le scene, i protagonisti, i comprimari, le comparse, i contorni, gli fondi e i sottofondi, in un piano che certamente non è capriccio e che pure può apparirci come un capriccio solo perché non conosciamo il piano e, di più, non possiamo neanche conoscerlo.
E i pezzettini della vita, quelli veri e non quelli del caleidoscopio, sono infiniti e in continuo movimento senza che si possano mai fermare in un incredibile infinito crearsi, dissolversi e ricrearsi d’immagini sempre nuove, qualche volta simili e tuttavia sempre diverse.
Che non si possono mai fermare, come sono in un continuo farsi e rifarsi.

Ero ieri a Sciacca, per un festival di letteratura e cinema; entravo in una sala dove si sarebbe presentato un romanzo, insieme a Caterina e all’autrice del romanzo, mentre altre persone ne uscivano dopo aver partecipato alla presentazione di qualcos’altro.
Ovviamente ero fuori dal mio ambiente, in un ambiente che mi è del tutto estraneo e col quale ho avuto, in tutta una vita, contatti rari, episodici e in buona misura pure casuali. Estraneo. Altro, rispetto a tutte quelle persone e in quelle cose.
Eppure, vicino al palco, ho riconosciuto l’avvocato Veneroso, Primo Veneroso, che per ragioni professionali avevo incontrato qualche volta, più d’una per la verità, al Tribunale di Sciacca e col quale, in quelle occasioni, mi ero intrattenuto piacevolmente a discorrere nelle pause fra una causa e l’altra e nell’attesa che chiamassero le rispettive nostre.
M’è parso di averlo ritrovato come l’avevo lasciato l’ultima volta, alto, interessante, in una giacca tipo marina, blu coi bottoni dorati; doppio petto? Non mi ricordo più; forse doppio petto, ma tipicamente d’uomo di mare. Mi ha guardato come si guarda una persona che si sa di conosce e non si capisce chi sia. Mi sono presentato e si è ricordato anche lui di me.
E non è bastato Primo Veneroso, che, spostato lo sguardo, ho scorto Franco Lo Bue che velocemente si avviava verso l’uscita cercando d’attirare l’attenzione di qualcuno. L’avevo conosciuto appena, più di quarant’anni fa, e solo perché era il fidanzato d’una mia amica e collega d’università, Giovanna Chiarello; anche lui uguale a quando l’avevo visto l’ultima volta, in una delle pochissime che l’avevo incontrato, più di quarant’anni fa, appunto; solo un po’ meno robusto di come me lo ricordavo; o forse invece ero io che ero, allora, quarant’anni fa, meno robusto, e molto pure, e nel confronto fra quello che ora siamo e quello che eravamo la mia mente me lo rappresenta più magro.
Nell’attimo che ci incrociammo, che io entravo e lui usciva, rivolto a lui, mi è scappato di bocca un inatteso “Franco!”, che lui, quasi immediatamente, dopo solo un momento d’esitazione, ma solo un momento, un attimo, fece: “Vicé!”… “Sì, sono io! Dov’è tua moglie?”
E m’è venuto da morire: “tua moglie”, sul presupposto, solo immaginato, che si fosse sposato e con Giovanna e che non avesse divorziato; in quarant’anni quante cose succedono o possono succedere, quanti amori muoiono e nascono in quella specie di caleidoscopio ingovernabile e imprevedibile del quale dicevo prima; “Non so mai tacere quando si deve” pensai, e mentre lo pensavo, lui disse, con semplicità e nell’andarsene via “È lì, guarda dove”, indicò col dito proprio dietro di me, e mi lasciò con Giovanna.
In un quadro di immutati, Primo Veneroso nel suo vestito di marina, da velista senza barca o forse lontano dalla sua barca –non so se ne ha o ne ha mai avuta una- e Franco Lo Bue con un paio d’occhiali che mi sono parsi quelli che aveva sul naso quarant’anni fa –e chissà se li portava, gli occhiali, quarant’anni fa- Giovanna mi è parsa più bella di come la ricordavo, con lo stesso sguardo aperto e sorridente. Gioviale, amichevole. Simpatica.
Mi ha sorriso, le ho sorriso. Ci siamo abbracciati, com’è d’obbligo e di piacere nel rivedersi dopo quarant’anni.
Cinque minuti in tutto siamo stati insieme e ho avuto l’impressione che ci fossimo detti il miliardo e milioni di cose che ciascuno di noi aveva fatto in quei quarant’anni. In una vita intera.
“Il finto distratto”, mi ha detto, quasi a completare un discorso che avevamo lasciato in asso quella vita prima; alludeva a Franco, o così ho capito io, che è lo stesso.
“Chi? Io ho detto ‘finto distratto’?” e alludevo –questo lo so per certo- a Franco; “E quando l’ho detto? E perché l’ho detto?”
E Giovanna: “Sì, sì… tu… e ci ho riflettuto molto, sai?”
Non mi ricordo d’averlo detto ed è sicuro che l’ho detto. Ci ho pensato e ripensato e penso di sapere perché l’ho detto.
Le ho presentato Caterina, ci siamo riabbracciati, lei è uscita e io ho preso posto che stava per cominciare la presentazione del romanzo di Elvira.

martedì 14 novembre 2017


Se sei stata una Br allora l’accanimento diventa legittimo...
PROCESSO “PER PROTESTE” A NADIA LIOCE, RECLUSA AL 41 BIS
Anche da una cella d’isolamento del 41 bis è possibile fare molto rumore. È quanto sostengono i responsabili del Reparto operativo mobile della sezione 41 bis del carcere di l’Aquila in una denuncia presentata contro l’ex Br Nadia Lioce e da cui sono scaturite le accuse di «disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone e oltraggio a pubblico ufficiale». La sua colpa? Battere per alcuni minuti una bottiglietta di plastica contro la porta della sua cella.
NADIA LIOCE PROTESTA PER IL 41BIS E VIENE DENUNCIATA
Se è stata una Br, allora è legittimo perseguitarla?
Può sembrar strano ma anche da una cella d’isolamento del 41 bis è possibile fare molto rumore. È quanto sostengono i responsabili del Reparto operativo mobile della sezione 41 bis del carcere di l’Aquila in una denuncia presentata contro Nadia Lioce e da cui sono scaturite le accuse di «disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone e oltraggio a pubblico ufficiale». Il processo davanti tribunale capoluogo abruzzese entrerà nel vivo il prossimo 24 novembre. Rinchiusa in regime di 41 bis ormai dal lontano 2005, dopo la condanna all’ergastolo ostativo per gli attentati mortali del 1999 e del 2002 contro i consulenti governativi Massimo D’Antona e Marco Biagi, rivendicati da un piccolo gruppo che aveva ripreso una vecchia sigla brigatista, le Brpcc, Nadia Lioce ha assistito nel tempo ad una progressiva restrizione del regime detentivo a cui è sottoposta, in particolare per quanto attiene alla possibilità di aver con sé fogli, quaderni, libri e riviste.
Nel 2011 è stato introdotto il divieto di ricevere libri e riviste dall’esterno, impedimento confermato anche nell’ultimo provvedimento del Dap: il «decalogo» che ha uniformato a livello nazionale il trattamento dei detenuti in 41 bis. Se negli ultimi tempi le condizioni materiali di detenzione della Lioce hanno subito un adeguamento ( cella singola di normale grandezza, sufficientemente luminosa, areata e riscaldata; un passeggio grande e attrezzato), le redel strizioni hanno preso di mira la possibilità di leggere, studiare, pensare, scrivere. Un’ora di colloquio mensile con vetro e non più di 15- 18 ore annue di confronto con i propri avvocati, sono il tempo di conversazione disponibile che la detenuta riesce a consumare nell’arco di quattro stagioni, poco più di 24 ore di parola per un silenzio lungo 364 giorni.
Nell’ultimo decennio – ha ricordato il senatore Luigi Manconi, in una interpellanza presentata il 10 giugno del 2015 – la sottrazione del materiale cartaceo conservabile nelle celle della sezione femminile 41 bis presso il carcere dell’Aquila, è passato da 30 a 3 riviste, da 20 a 3 quaderni, agli atti giudiziari dell’ultimo anno, a un solo dizionario. In ottemperanza a questo giro di vite, il 13 aprile 2015 Nadia Lioce – ha denunciato sempre Manconi – si è vista sottrarre l’immediata disponibilità del materiale cartaceo in suo possesso ( atti giudiziari, lettere, un quaderno, una rivista e articoli di giornale) trasferito in locali adibiti a magazzino e accessibili solo a giorni alterni in giorni feriali.
Nel corso della stessa giornata la detenuta indirizzava al direttore dell’Istituto un reclamo per la restituzione del materiale che le era stato sottratto. Copia veniva inviata anche al magistrato di sorveglianza e allo stesso senatore Manconi perché potesse effettuare l’azione di sindacato ispettivo. La sottrazione del materiale cartaceo era stata anticipata tempo prima dal sequestro dell’elastico di una normale cartellina porta- documenti e di buste di carta ricavate da fogli di quotidiani incollati, utilizzate per archiviare corrispondenza e atti giudiziari.
Circostanza confermata il 22 ottobre 2015 nella deposizione resa davanti al pm dal Commissario capo della Casa circondariale de l’Aquila: «Con la detenuta Lioce ha avuto inizio un attrito dovuto inizialmente al fatto che la stessa ha accumulato un notevole quantitativo di documenti all’interno della propria cella, fatto che rendeva difficoltoso effettuare le ordinarie perquisizioni». Da quel momento – ha aggiunto – ogni ulteriore oggetto ritirato alla detenuta è divenuto un motivo di contrasto e protesta, come è stato per una banale laccetto porta occhiali che la detenuta aveva ricavato con una striscia di tessuto. Manufatto non consentito dal regolamento e il cui sequestro ha provocato ulteriori tensioni con la reclusa. Un crescendo che di volta in volta si è focalizzato su oggetti banali e insignificanti.
In questo modo, in appena tre mesi sono stati elevati nei confronti della Lioce 70 provvedimenti disciplinari, come hanno denunciato in occasione della udienza del 15 settembre scorso i suoi legali, Caterina Calia, Ludovica Formoso e Carla Serra, che fanno anche notare come la permanenza di questo regime detentivo ultrarestrittivo non abbia più fondamento in assenza di quell’organizzazione esterna, smantellata nel 2003, in cui la Lioce militava.
Dopo aver constatato che le normali vie di ricorso legale non avevano sortito alcun effetto, Nadia Lioce ha inscenato, dal marzo al settembre 2015, la battitura della porta blindata al termine di ogni perquisizione, suscitando da sola tanto di quel baccano da essere trascinata a processo.
«Come ormai da tempo accade – scriveva in un rapporto del 4 settembre 2015 l’agente scelto del Reparto operativo mobile che assieme ad una collega aveva eseguito la perquisizione – in risposta a tali controlli, alle ore 8.45 circa, iniziava a protestare battendo una bottiglietta di plastica contro il cancello della propria camera detentiva fino alle ore 9.15 circa». Un atteggiamento ritenuto «strumentorio», dal vice Ispettore del Rom che in un altro rapporto ricorreva a questo inusitato neologismo per censurarne il comportamento chiedendo che la segnalazione venisse inviata alla locale autorità giudiziaria. Altrove le proteste della Lioce venivano qualificate come manifestazione «della sua indole rivoluzionaria», suscettibile di sanzioni disciplinari come l’applicazione della misura dell’isolamento punitivo ( 14 bis Op).
Come se non bastasse, è venuta la richiesta di disporre «previo accertamento e quantificazione del danno, da eseguirsi a cura dell’addetto alla m. o. f. ( manutenzione ordinaria fabbricati)», un «provvedimento di addebito a titolo di risarcimento per i danni rilevabili sul cancello della camera detentiva di assegnazione», provocati dalla percussione di una bottiglietta di plastica sulle pesanti porte di ferro blindato.

Umanità Nova, 23 settembre 2018