LA VITA È UN CALEIDOSCOPIO
Un fatto del 2013, un ricordo di quarant'anni
prima, una riflessione - inutili, manco a dirlo
La vita è un caleidoscopio.
Qualcuno deve averlo detto prima e più autorevolmente di me,
ne sono sicuro, ma non riesco a ricordare chi sia stato. E forse l’ha detto con
senso diverso dal mio. Non lo so.
Mi sono svegliato, stamattina, con questo rovello del
caleidoscopio della vita; o meglio del vivere, della realtà, del farsi e del
disfarsi nell’attimo stesso in cui si fa; del combinarsi di un’infinita varietà
di pezzettini che si compongono, si scompongono, si ricompongono in maniera
nuova e diversa, inaspettatamente, con lo stupore di chi guarda dentro
all’apparecchio e con l’indifferenza di chi ha l’occhio altrove e fuori
dall’oculare; con l’indifferenza del pezzettino stesso che non ha coscienza di
se, della sua forma, del suo colore e non sa quello che sta facendo; che, senza
che ce ne sia una ragione o senza che questa ragione, se c’è, si conosca, si
sta allontanando da altri pezzettini per avvicinarsi ad altri; che ha scomposto
un’immagine nei suoi componenti essenziali per non essere più immagine,
quell’immagine, ma a formarne un’altra, nuova e diversa, che finirà di lì a
poco. Effimera, come effimere sono tutte le cose della vita e come effimera è
la vita stessa.
E chi lo sa.
Le immagini del caleidoscopio si compongono, si scompongono,
si ricompongono, si formano, nascono, muoiono per poi rinascere in un numero
finito, che, appunto, per quanto grande è tuttavia finito.
Sono certo che un matematico, e neanche tanto esperto, se sa
quanti sono i pezzettini colorati e sa di quanti e quali colori essi sono potrà
calcolare il numero d’immagini possibili. E per di più, chi manovra il comando
del caleidoscopio potrà fermare un’immagine a suo piacimento e per il tempo che
vorrà, e pure per sempre.
E così è la vita? Così è la realtà. No. Non è così, ci
somiglia, la vita, al caleidoscopio, ma non è un caleidoscopio.
Forse non c’è il manovratore; io credo che ci sia, e se c’è,
non muove la ghiera a caso perché a caso si combinino i colori e si creino le
forme, ma sa bene come combinare i pezzettini che poi siamo noi, le cose entro
le quali ci muoviamo, le scene, i protagonisti, i comprimari, le comparse, i
contorni, gli fondi e i sottofondi, in un piano che certamente non è capriccio
e che pure può apparirci come un capriccio solo perché non conosciamo il piano
e, di più, non possiamo neanche conoscerlo.
E i pezzettini della vita, quelli veri e non quelli del
caleidoscopio, sono infiniti e in continuo movimento senza che si possano mai
fermare in un incredibile infinito crearsi, dissolversi e ricrearsi d’immagini
sempre nuove, qualche volta simili e tuttavia sempre diverse.
Che non si possono mai fermare, come sono in un continuo
farsi e rifarsi.
Ero ieri a Sciacca, per un festival di letteratura e cinema;
entravo in una sala dove si sarebbe presentato un romanzo, insieme a Caterina e
all’autrice del romanzo, mentre altre persone ne uscivano dopo aver partecipato
alla presentazione di qualcos’altro.
Ovviamente ero fuori dal mio ambiente, in un ambiente che mi
è del tutto estraneo e col quale ho avuto, in tutta una vita, contatti rari,
episodici e in buona misura pure casuali. Estraneo. Altro, rispetto a tutte
quelle persone e in quelle cose.
Eppure, vicino al palco, ho riconosciuto l’avvocato Veneroso,
Primo Veneroso, che per ragioni professionali avevo incontrato qualche volta,
più d’una per la verità, al Tribunale di Sciacca e col quale, in quelle
occasioni, mi ero intrattenuto piacevolmente a discorrere nelle pause fra una
causa e l’altra e nell’attesa che chiamassero le rispettive nostre.
M’è parso di averlo ritrovato come l’avevo lasciato l’ultima
volta, alto, interessante, in una giacca tipo marina, blu coi bottoni dorati;
doppio petto? Non mi ricordo più; forse doppio petto, ma tipicamente d’uomo di
mare. Mi ha guardato come si guarda una persona che si sa di conosce e non si
capisce chi sia. Mi sono presentato e si è ricordato anche lui di me.
E non è bastato Primo Veneroso, che, spostato lo sguardo, ho
scorto Franco Lo Bue che velocemente si avviava verso l’uscita cercando
d’attirare l’attenzione di qualcuno. L’avevo conosciuto appena, più di
quarant’anni fa, e solo perché era il fidanzato d’una mia amica e collega
d’università, Giovanna Chiarello; anche lui uguale a quando l’avevo visto
l’ultima volta, in una delle pochissime che l’avevo incontrato, più di
quarant’anni fa, appunto; solo un po’ meno robusto di come me lo ricordavo; o
forse invece ero io che ero, allora, quarant’anni fa, meno robusto, e molto
pure, e nel confronto fra quello che ora siamo e quello che eravamo la mia
mente me lo rappresenta più magro.
Nell’attimo che ci incrociammo, che io entravo e lui usciva,
rivolto a lui, mi è scappato di bocca un inatteso “Franco!”, che lui, quasi
immediatamente, dopo solo un momento d’esitazione, ma solo un momento, un
attimo, fece: “Vicé!”… “Sì, sono io! Dov’è tua moglie?”
E m’è venuto da morire: “tua moglie”, sul presupposto, solo
immaginato, che si fosse sposato e con Giovanna e che non avesse divorziato; in
quarant’anni quante cose succedono o possono succedere, quanti amori muoiono e
nascono in quella specie di caleidoscopio ingovernabile e imprevedibile del
quale dicevo prima; “Non so mai tacere quando si deve” pensai, e mentre lo
pensavo, lui disse, con semplicità e nell’andarsene via “È lì, guarda dove”,
indicò col dito proprio dietro di me, e mi lasciò con Giovanna.
In un quadro di immutati, Primo Veneroso nel suo vestito di
marina, da velista senza barca o forse lontano dalla sua barca –non so se ne ha
o ne ha mai avuta una- e Franco Lo Bue con un paio d’occhiali che mi sono parsi
quelli che aveva sul naso quarant’anni fa –e chissà se li portava, gli
occhiali, quarant’anni fa- Giovanna mi è parsa più bella di come la ricordavo,
con lo stesso sguardo aperto e sorridente. Gioviale, amichevole. Simpatica.
Mi ha sorriso, le ho sorriso. Ci siamo abbracciati, com’è
d’obbligo e di piacere nel rivedersi dopo quarant’anni.
Cinque minuti in tutto siamo stati insieme e ho avuto
l’impressione che ci fossimo detti il miliardo e milioni di cose che ciascuno
di noi aveva fatto in quei quarant’anni. In una vita intera.
“Il finto distratto”, mi ha detto, quasi a completare un
discorso che avevamo lasciato in asso quella vita prima; alludeva a Franco, o
così ho capito io, che è lo stesso.
“Chi? Io ho detto ‘finto distratto’?” e alludevo –questo lo
so per certo- a Franco; “E quando l’ho detto? E perché l’ho detto?”
E Giovanna: “Sì, sì… tu… e ci ho riflettuto molto, sai?”
Non mi ricordo d’averlo detto ed è sicuro che l’ho detto. Ci
ho pensato e ripensato e penso di sapere perché l’ho detto.
Le ho presentato Caterina, ci siamo riabbracciati, lei è
uscita e io ho preso posto che stava per cominciare la presentazione del
romanzo di Elvira.