lunedì 20 novembre 2017

la favola nera di Alva Campbell

Quando la realtà è peggiore della peggiore fantasia: la favola nera di Alva Campbell


Facciamo che debba eseguirsi la condanna a morte per iniezione letale  di un tale ritenuto responsabile di un omicidio commesso nel 97, quando aveva vent’anni. Facciamo che la si debba eseguire nell’Ohio.
Facciamo che, sempre per esigenze di scena e di narrazione, che questo signore, che chiamiamo Alva, stia male, ma proprio male: lo facciamo che camminare solo tramite un deambulatore, che ha gravi insufficienze respiratorie (dorme con un cuscino medico speciale e riceve ossigeno quattro volte al giorno), facciamo che ha recentemente subito una colostomia e che, per sovrappiù, forse ci ha pure un tumore ai polmoni.
Ora, siccome per ragioni di civiltà che tutti comprendiamo (tutti tranne qualcuno, fra i quali me), non si può eseguire una pena capitale su uno che non sta bene, facciamo che  i suoi avvocati abbiano chiesto ripetutamente una sospensione della pena, che però sarebbe  stata regolarmente respinta; immaginiamo che ad un certo punto venga eseguito  un esame medico sulle “vene palpabili” del condannato e che la portavoce dei Servizi penitenziari dello  stato dell’Ohio, abbia dichiarato  che “L’evoluzione dello stato di salute di mister Campbell –questo sarebbe il cognome del nostro personaggio- è seguito in modo professionale per prendere le misure necessarie alla sua esecuzione”. E facciamo che il giorno dell’esecuzione arriva: si fa distendere Alva su un lettino e lo si lega per bene. Come un arrosto di vitello, come un salame; e non oso immaginare cosa il salame stia pensando, in quel momento; ma: sciocco che sono! i salami non pensano; I salumieri pensano, sì, loro sì che pensano. È vero: il cacciatorino Negroni, per dire, non pensa, ma il signor Negroni, sì –o almeno: tutto lascia pensare che i Negroni e i Galbani e pure il salumiere  che è  dietro l’angolo  pensino, che abbiano sentimenti, che godano e che soffrano. Come tutti gli esperti di norcineria, e non solo loro, per fortuna.
Che pensi o non pensi, Alva sta lì, sul suo lettino, quel lettino che egli pensa sia l’ultimo –questo anche se non l’ha pensato espressamente, deve pur averlo ragionevolmente ritenuto-, legato come un salame che non pensa –ma pensa, il poveretto- mentre  il boia, per 3 ore, tre ore che sono centoottanta interminabili minuti per il salame, gli gira intorno; lo tasta, lo palpa, lo saggia alla ricerca di una vena “utile” nel suo corpo:  nelle sue braccia, nelle sue gambe, nelle giunture delle braccia e dietro i ginocchi,  una vena che sia “utile” per iniettare  il veleno che farà definitivamente pagare ad Alva il debito che ha con lo stato dell’Ohio. In vena di macabro e di grottesco –ma “vena” qui non dovevo dirlo-, la vena, una che sia una, una sola, non si trova.
Alva viene slegato, messo sulla carrozzina e riportato in cella e    poco dopo JoEllen Smith, che fa il suo dovere di portavoce comunica al mondo che  “L’esecuzione si è conclusa con un fallimento, una nuova data verrà presto fissata”.
Meno male che era una storia, che se fosse stata vera sarebbe stata terribile; solo un maniaco dell’orrore avrebbe potuto concepire una storia così.

E invece la storia è proprio vera.


Fonte: Daniele Zaccaria, Il dubbio, 17 novembre 2017

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