Quando la realtà è peggiore della peggiore fantasia: la favola
nera di Alva Campbell
Facciamo che debba eseguirsi la condanna a morte per
iniezione letale di un tale ritenuto
responsabile di un omicidio commesso nel 97, quando aveva vent’anni. Facciamo
che la si debba eseguire nell’Ohio.
Facciamo che, sempre per esigenze di scena e di narrazione,
che questo signore, che chiamiamo Alva, stia male, ma proprio male: lo facciamo
che camminare solo tramite un deambulatore, che ha gravi insufficienze
respiratorie (dorme con un cuscino medico speciale e riceve ossigeno quattro
volte al giorno), facciamo che ha recentemente subito una colostomia e che, per
sovrappiù, forse ci ha pure un tumore ai polmoni.
Ora, siccome per ragioni di civiltà che tutti comprendiamo (tutti
tranne qualcuno, fra i quali me), non si può eseguire una pena capitale su uno
che non sta bene, facciamo che i suoi
avvocati abbiano chiesto ripetutamente una sospensione della pena, che però
sarebbe stata regolarmente respinta; immaginiamo
che ad un certo punto venga eseguito un
esame medico sulle “vene palpabili” del condannato e che la portavoce dei Servizi
penitenziari dello stato dell’Ohio, abbia
dichiarato che “L’evoluzione dello stato
di salute di mister Campbell –questo sarebbe il cognome del nostro personaggio-
è seguito in modo professionale per prendere le misure necessarie alla sua
esecuzione”. E facciamo che il giorno dell’esecuzione arriva: si fa distendere Alva
su un lettino e lo si lega per bene. Come un arrosto di vitello, come un
salame; e non oso immaginare cosa il salame stia pensando, in quel momento; ma:
sciocco che sono! i salami non pensano; I salumieri pensano, sì, loro sì che pensano.
È vero: il cacciatorino Negroni, per dire, non pensa, ma il signor Negroni, sì –o
almeno: tutto lascia pensare che i Negroni e i Galbani e pure il salumiere che è dietro
l’angolo pensino, che abbiano sentimenti,
che godano e che soffrano. Come tutti gli esperti di norcineria, e non solo
loro, per fortuna.
Che pensi o non pensi, Alva sta lì, sul suo lettino, quel
lettino che egli pensa sia l’ultimo –questo anche se non l’ha pensato
espressamente, deve pur averlo ragionevolmente ritenuto-, legato come un salame
che non pensa –ma pensa, il poveretto- mentre il boia, per 3 ore, tre ore che sono centoottanta
interminabili minuti per il salame, gli gira intorno; lo tasta, lo palpa, lo
saggia alla ricerca di una vena “utile” nel suo corpo: nelle sue braccia, nelle sue gambe, nelle
giunture delle braccia e dietro i ginocchi, una vena che sia “utile” per iniettare il veleno che farà definitivamente pagare ad
Alva il debito che ha con lo stato dell’Ohio. In vena di macabro e di grottesco
–ma “vena” qui non dovevo dirlo-, la vena, una che sia una, una sola, non si
trova.
Alva viene slegato, messo sulla carrozzina e riportato in
cella e poco dopo JoEllen Smith, che fa
il suo dovere di portavoce comunica al mondo che “L’esecuzione si è conclusa con un fallimento,
una nuova data verrà presto fissata”.
Meno male che era una storia, che se fosse stata vera
sarebbe stata terribile; solo un maniaco dell’orrore avrebbe potuto concepire una
storia così.
E invece la storia è proprio vera.
Fonte: Daniele Zaccaria, Il dubbio, 17 novembre 2017
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